La Struttura Strappata

Quella che oggi viene da molti percepita come un invasione da parte di stranieri (l’immigrazione caotica e incontrollata) ha avviato un processo perverso: la presenza sempre più “visibile”  e talvolta “traumatica” di outsiders – come li ha definiti Norbert Elias, contrapponendoli agli established – produce in questi ultimi una regressione culturale che tende a trasformare la nostra società, storicamente aperta e che tale necessariamente rimane nel contesto dell’economia-mondo, in una società culturalmente ed ideologicamente chiusa. Questo provoca un profondo e diffuso disagio in entrambe le categorie, che si sentono reciprocamente “minacciate” e tendono pertanto a sfuggire al dialogo, arroccandosi in una auto-referenzialità che inibisce qualsiasi possibilità di comunicazione.[1]

E’ su questa riflessione che nel 2009 è nato il progetto La struttura strappata. Ragazzi albanesi fra emigrazione e ritorno all’interno della Comunità Educativa Carlo del Prete[2] di Lucca, le cui attività con i minori sono gestite dalla Cooperativa L’Impronta Onlus. Gli ospiti sono minori stranieri, per la maggior parte albanesi,  non accompagnati, e spesso sans papiers. Arrivati in Italia clandestinamente, sono portati in Comunità dalla Questura. Gli educatori si adoperano per regolarizzarli, curare la loro educazione formale e informale e, successivamente, un inserimento lavorativo. Tutto questo basandosi sul dialogo. Dialogo tra ragazzi e operatori, dialogo tra questi e le famiglie di origine. Assieme al dott. Paolo Gaddini, psicologo, a Federico Fambrini, responsabile della struttura, e sotto la supervisione del prof. Paolo Chiozzi, docente di Antropologia Culturale all’Università di Firenze, ha preso vita l’idea di utilizzare la componente visuale per aiutare a conoscere-conoscendosi i nove ospiti albanesi. E l’immagine fotografica, inserendosi in questo contesto, è diventata un modo nuovo per comunicare. L’Albania era terra di grandi contrasti. Tirana una capitale ancora in bilico tra passato e futuro. Da una parte auto moderne parcheggiate sotto grattacieli a vetro, dall’altra motorini anni’50. Le ragazze più giovani vestite in modo europeo, le anziane ancora legate alla tradizione. Allontanandosi dalla capitale la povertà sempre più forte. Carente l’educazione formale e, frequentemente, scuole decadenti. Agricoltura e allevamento le fondamenta della sussistenza. Lavori inventati utilizzando mezzi di fortuna. Alcuni uomini avevano allestito all’interno di ex fabbriche dismesse officine di riparazioni per automobili.

Il nostro progetto prevedeva una prima serie di scatti volti a ritrarre gli adolescenti impegnati durante la loro quotidianità italiana e, una seconda, ai familiari rimasti in Albania. I ragazzi, partecipando attivamente alla realizzazione e alla scelta delle immagini, hanno compiuto, più o meno consapevolmente, un profondo studio su di sé. Con la possibilità di scegliere il modo come apparire, una specie di antropologica auto messa in scena della realtà,  si sono molto preoccupati di quello che sarebbe potuto essere il giudizio dei propri genitori. Quel generazionale incontro-scontro di tradizione e modernità li ha messi davanti ad uno specchio: « Chi sono io?». Spesso è bastata un’immagine a spiegare in modo molto più efficace ciò che a parole difficilmente sarebbe stato possibile. La fotografia è divenuta un mezzo di comunicazione visuale nella terza parte, quando le immagini degli uni sono state consegnate  agli altri. Proprio quest’ultimo aspetto si è rivelato essere quello più cruciale. L’immagine ha assunto il ruolo di stimolo (photo-elicitation) per suscitare nell’intervistato ricordi, sentimenti, impressioni ed emozioni. «La photo-elicitation è un particolare tipo di intervista in profondità, in cui l’immagine (…) diventa il focus della comunicazione» e si sostituisce alla domanda[3]. Per Chiozzi l’uso della fotografia non ha solo una funzione investigativa, ma consente di “rompere il ghiaccio”, di facilitare il dialogo e favorire il rapporto tra intervistatore e intervistato[4]. Durante entrambe le restituzioni, quella con le immagini “italiane” ai parenti in Albania e quelle “albanesi” ai ragazzi, è stato possibile notare quante dinamiche inconsapevolmente simili si fossero sviluppate. Chi sconfitto dalla troppa sofferenza ha smesso di guardare. Chi ha baciato la fotografia e chi ha pianto. Un caso emblematico. Un padre, con una sola veloce occhiata, ha capito quanto il figlio fosse sulla cattiva strada. L’anno successivo il figlio è stato espulso dall’Italia. Questo ha immediatamente fatto nascere un dubbio: il ragazzo nello scegliere proprio quella foto stava chiedendo aiuto? Era un messaggio, più o meno consapevole, verso il padre?

Questa ricerca ha un sostanziale debito metodologico verso Margaret Mead e Gregory Bateson che nel loro Balinese Character del 1942 spostano l’attenzione della fotografia da testimonianza della realtà a rivelatrice di comportamenti umani. Come osservò Karl Heider[5] seppero realizzare «una combinazione di testo ed immagini fotografiche che da allora è stato raramente tentato e mai eguagliato». Ma: «La grandezza e l’importanza delle ricerche di Margaret Mead sono dovute anche alla rilevanza che l’antropologa ha dato alla restituzione delle osservazioni metodologiche, prassi quasi mai seguita dai ricercatori»[6]. E la restituzione delle fotografie, come già spiegato, è stato il fulcro del nostro progetto. Quell’intimità creata tra osservatore ed osservati, che annulla ogni distanza dello sguardo, ci indirizza verso quella antropologia condivisa che l’antropologo visuale Jean Rouch auspicava.

Secondo Chiozzi l’utilizzo della fotografia in antropologia visuale presenta due anime diverse, ma allo stesso tempo complementari: «se infatti essa è, da un lato, ricerca con le immagini, dall’altro lato essa è anche ricerca sulle/attraverso le immagini, ed in questo caso essa si presenta appunto come antropologia della comunicazione visuale, nel senso che essa esplora le modalità comunicative visuali come aspetto particolare della cultura»[7]. E La Struttura Strappata, il cui nome rivisita la struttura che connette di batesoniana memoria, si va a collocare indubbiamente nell’ambito del secondo approccio. Durante la nostra osservazione-partecipante si è sviluppato un vero e proprio percorso sulle/attraverso le fotografie. A questo punto diventa necessario chiarire due aspetti fondamentali. Da una parte, come dice Susan Sontag: « L’immagine fotografica (…) non è mai solo il trasparente resoconto di un evento. E’ sempre un’immagine che qualcuno ha scelto; fotografare significa inquadrare, e inquadrare vuol dire escludere»[8].  Fotografare è interpretare. Dall’altra, la presenza stessa di un fotografo-ricercatore sul campo, provvisto quindi della sua attrezzatura, secondo  lo stesso Heider «disturba gli attori sociali che tendono a comportarsi in maniera innaturale o comunque a modificare in parte o del tutto il proprio comportamento». Cambiamenti  che egli chiamava distorsioni, modificazioni cioè  impossibili da valutare «dal momento che egli non può osservare in assenza di se stesso»[9]. Osservare significa trasformare. Lo studioso già per il solo fatto di entrare in una realtà la modifica[10].

Altro aspetto estremamente interessante, oltre l’influenza del ricercatore stesso, è negli oggetti di uso comune dove è possibile rintracciare il senso degli altri, il senso che le persone attribuiscono al proprio ‘mondo’[11]. Come l’ armadio o la camera, ad esempio, diventati un luogo di autoespressione. Pur condividendo la camera con altri compagni, si nota subito la propensione a personalizzare emotivamente il proprio spazio e il desiderio di comunicare la propria appartenenza. In molti appendono una bandiera dell’Albania, altri la disegnano direttamente sull’intonaco o attaccano ritagli di giornali albanesi, alla ricerca di una sicurezza psicologica in un momento di passaggio altamente traumatico. Il tentativo di non perdere le proprie radici, nell’inevitabile strappo con il Paese di origine e nelle altrettanto inevitabili ri-connessioni socio-culturali con il Paese ospitante, rafforza quello che Tajfel chiamava ingroup ( il proprio gruppo di appartenenza)  in contrapposizione a quello di non-appartenenza ( outgroup). I propri disegni sono una grossolana autopresentazione visuale dove enunciare i valori fondamentali della propria identità sociale.

Il progetto si è sviluppato con l’obbiettivo di abbattere i muri della distanza, delle diversità culturali tra il paese di origine  ed il paese adottivo,  di aiutare il minore immigrato a ricostruirsi una nuova identità conforme al nuovo ambiente, creando e ri-creando, attraverso l’uso della fotografia,  connessioni tra i ragazzi e le loro famiglie – che tornano ad essere ognuna davvero una struttura che connette 

E’ eticamente opportuno chiarire che, trattandosi di minori, l’utilizzo delle informazioni e delle immagini dei ragazzi, pubblicate in questa ricerca, è stato autorizzato dai tutori legali in Italia degli stessi.

(Estratto da Morelli S. (2011), La struttura strappata. Ragazzi albanesi fra emigrazione e ritorno, Bonanno editore, Acireale-Roma).

 

 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI   

 -         Augé M. (1994), Il senso degli altri: attualità dell’antropologia. Milano: Edizioni Anabasi,.

-         AA.VV (2008) Sotto tutti i cieli, Fondazione Paolo Cresci per la storia dell’emigrazione italiana, Lucca: Tipografia Tommasi.

-         AA.VV (2009) Dossier 2010 sulle povertà in Toscana, Caritas Toscana

-         AA.VV (2010) Caritas/Migrantes. Immigrazione. Dossier statistico 2010. Pomezia: Idos Edizioni.

-         AA.VV (2010) Nero su Bianco. L’immagine dell’immigrazione nella stampa locale. Ospedaletto: Caritas Lucca

-         Amerio P. (2001) Psicologia di comunità. Bologna: Il Mulino.

-         Balma Tivola C. (2004) Visioni del Mondo. Trieste: Edizioni Goliardiche.

-         Biagini A. (2005)  Storia dell'Albania contemporanea. Milano: Bompiani.

-         Centini M. (2004) Fisiognomica. Nei segni del volto il destino dell’uomo. Milano: Red Edizioni.

-         Canevacci M. (1990) Antropologia della Comunicazione Visuale. Roma: Sapere 2000

-         Chalfen R. M. (1997) Sorrida, prego! La costruzione visuale della vita quotidiana. Milano: Franco Angeli.

-         Chiozzi P. (1989) Storia, antropologia, fotografia. Alcune considerazioni metodologiche sulla utilità degli archivi e dei fondi fotografici. ‘Archivio Fotografico Toscano’, n.10.

-         Chiozzi P. (1993), Manuale di antropologia visuale. Milano: Unicopli.

-         Chiozzi P. (2008) Antropologia della libertà. Roma: Bonanno Editore.

-         Chiozzi P. (2009) Didattica della Visualità. Roma: Bonanno Editore.

-         Chiozzi P. (2016), Saper vedere: il “giro lungo” dell’antropologia visuale in Società Mutamento Poltica, vol. 7, n. 14. Firenze: Firenze University Press.

-         Cicerone, De Oratione, III, 59; Orator, XVIII.

-         Del Pistoia D. (2007) Globalizzazione neorazzismo e scontri culturali. Quando la cultura divide. Roma: Armando Editore.

-         Dingo F. (2007) Identità albanesi. Un approccio psico-antropologico. Roma: Bonanno Editore.

-         Heider K. (1976), Ethnographic Film, University of Texas Press, Austin & London.

-         Morelli S. (2016) Immagini e parole. Dialogo su etica e metodo della ricerca fotografica in P. Chiozzi ( a cura di), Per un atlante delle scienze umane. Rivista di Scienze Sociali n. 16.

-         Rouch J. (1979), La caméra et les hommes, in De France C. (a cura di), Pour une anthropologie visuelle, Paris: Mouto.

-         Ronzon F. (2008) Sul campo. Roma: Meltemi Editore

-         Sontag S. (2003).  Davanti al dolore degli altri. Milano: Oscar Mondadori.

-         Sontag S. (2004).  Sulla fotografia. Torino: Piccola Biblioteca Einaudi.

-         Tajfel H. (1999) Gruppi Umani e Categorie Sociali. Bologna: Il Mulino, Bologna.

 

 SITOGRAFIA

-          www.albanianews.it

-          www.balcanicaucaso.org

-          www.braingain.gov.al

-          www.corriere.it

-          www.improntacoop.it